Storia del Regno di Napoli – Un nuovo ideale riformatore
Gli anni dopo la rivolta
Dopo la rivolta si avverte una voglia di
cambiamento anche da parte degli spagnoli, i quali si resero conto che la
nobiltà era tanto nociva alla corona quanto le rappresaglie del popolo. Già il
conte Miranda nel 1586 sentì l'esigenza di superare l'atteggiamento repressivo
nei confronti dei massari e di contrastare i soprusi dei commissari. Purtroppo
era molto difficile controllare quello che decidevano e facevano gli Eletti; fu
così chiamato, già da pochi anni prima della rivolta il più affidabile dei
ministri di Filippo II: il conte di Olivares. Purtroppo fu richiamato a Madrid a
causa degli scontri con la nobiltà.
Anche Campanella entrò nel merito della questione proponendo, come riforma iniziale, il fatto che i baroni non potessero possedere più di tremila ducati, ma la sua posizione si rivelò un'utopia. La nobiltà prese sempre più potere e subito dopo la rivolta del 1585 vararono una riforma che aumentava la sua possibilità di pressione nei confronti del governo spagnolo; furono introdotte nuove norme che tendevano a restaurare nei comuni l'autorità dei baroni e costrinsero il regno a riconoscere per iscritto moltissimi privilegi ad essi ed ai feudatari. Questo programma di azione mirava a contenere l'ascesa di nuove classi sociali e cercava di rendere immobile la società. Dopo il richiamo in Spagna del conte di Olivares la rivoluzione si calmò perché venne meno il sentimento antispagnolo che aveva caratterizzato il periodo tra il 1585 ed il 1599, il quale rientrò semplicemente nella forma di malcontento nei confronti del baronaggio. Tuttavia, mentre si chiudeva questa fase di rivolte, furono ripresi ideali che erano apparsi confusamente durante le proteste. Al centro della nuova visione riformistica si poneva l'obiettivo di ampliare le basi della monarchia. Il concetto di uguaglianza sociale si univa con quello di gerarchia in modo che ogni ceto aveva il suo posto nella società, con i suoi diritti e i suoi doveri senza usurpare l'altro. In questo modo si poteva migliorare senza applicare radicali trasformazioni. Il popolo voleva attuare un richiamo al passato, riscoprendo la tradizione politica democratica che Napoli aveva vissuto nell'età comunale. Questo governo democratico aveva avuto forse inizio con una società tra i nobili e il popolo che fu riconosciuto nel 1190 da re Tancredi. Quindi anche l'analisi storica era contro una completa egemonia della nobiltà che, però, vantava il fatto che la sua autorità era stata legittimata da Alfonso d'Aragona nel 1456 con la demolizione della presenza popolare nel governo.
Anche Campanella entrò nel merito della questione proponendo, come riforma iniziale, il fatto che i baroni non potessero possedere più di tremila ducati, ma la sua posizione si rivelò un'utopia. La nobiltà prese sempre più potere e subito dopo la rivolta del 1585 vararono una riforma che aumentava la sua possibilità di pressione nei confronti del governo spagnolo; furono introdotte nuove norme che tendevano a restaurare nei comuni l'autorità dei baroni e costrinsero il regno a riconoscere per iscritto moltissimi privilegi ad essi ed ai feudatari. Questo programma di azione mirava a contenere l'ascesa di nuove classi sociali e cercava di rendere immobile la società. Dopo il richiamo in Spagna del conte di Olivares la rivoluzione si calmò perché venne meno il sentimento antispagnolo che aveva caratterizzato il periodo tra il 1585 ed il 1599, il quale rientrò semplicemente nella forma di malcontento nei confronti del baronaggio. Tuttavia, mentre si chiudeva questa fase di rivolte, furono ripresi ideali che erano apparsi confusamente durante le proteste. Al centro della nuova visione riformistica si poneva l'obiettivo di ampliare le basi della monarchia. Il concetto di uguaglianza sociale si univa con quello di gerarchia in modo che ogni ceto aveva il suo posto nella società, con i suoi diritti e i suoi doveri senza usurpare l'altro. In questo modo si poteva migliorare senza applicare radicali trasformazioni. Il popolo voleva attuare un richiamo al passato, riscoprendo la tradizione politica democratica che Napoli aveva vissuto nell'età comunale. Questo governo democratico aveva avuto forse inizio con una società tra i nobili e il popolo che fu riconosciuto nel 1190 da re Tancredi. Quindi anche l'analisi storica era contro una completa egemonia della nobiltà che, però, vantava il fatto che la sua autorità era stata legittimata da Alfonso d'Aragona nel 1456 con la demolizione della presenza popolare nel governo.
L'utopia riformistica: la 'monarchia popolare'
La nuova impostazione ideale
del movimento riformistico non poneva l'obiettivo di creare limiti al potere
regio, ma di collegarsi ad esso e di rafforzarlo. Permangono quindi ideali di
tradizione medievale secondo i quali il re può essere il protettore dei
territori di Napoli, ma solo il popolo può essere suo alleato e sostenitore
della monarchia. Purtroppo la plebe viene tagliata fuori per mancanza di
istruzione, mezzi e organizzazione dal dibattito a cui partecipa solo la
borghesia. La rivendicazione dell'uguaglianza tra nobiltà e borghesia era però
sintomo della differenza tra popolo e plebe che andava risolta. La critica
rivolta alla nobiltà è quella di non dare la possibilità al popolo di
intervenire nel dibattito politico e di basare i suoi giudizi solo su un fatto
di sangue e considerava la borghesia uguale alla plebe. La borghesia cercò di
convincere gli aristocratici dicendo che bisognava unirsi per contrastare la
violenza della plebe cercando di mantenere una buona stabilità. La borghesia
riconosce la virtù innata dei nobili, ma pensa che, grazie alle continue
ricchezze accumulate, essa possa imparare a vivere meglio e acquistare con
l'esperienza quello che le manca. La nobiltà era il punto di riferimento e la
suprema aspirazione di molti borghesi che per non pregiudicare un futuro
inserimento nelle file aristocratiche rinunciava a numerose cariche popolari.
Alla lunga il tradimento dei borghesi diventò uno dei principali motivi della
rivolta del 1647.
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