Palazzo Como
Storia e architettura
Palazzo Como si trova in via Duomo 288/A.
Pur non avendo notizie sulla data di costruzione, il palazzo rimane uno dei pochi esempi di architettura rinascimentale a Napoli e, già nel 1404 era proprietà di Giovanni Como, figlio di Girolamo, che, nel 1450, con l’aiuto del fratello Fabio, acquistò una casa vicina e un giardino con fontane per ampliare la propria dimora. I lavori cominciarono nel 1464 e, dopo aver acquistato porte, finestre e piperno, la famiglia Como si affidò all’opera di Rubino di Cioffo da Cava e di Evaristo da San Severino. La realizzazione del progetto rallentò a causa delle difficoltà di Angelo Como e della famiglia nell’acquistare un altro giardino, di proprietà di un certo Francesco Scannasorice che rifiutava qualsiasi offerta. Così, Alfonso II d’Aragona, del quale Leonardo Como, figlio di Angelo, era segretario, decise di intervenire acquistando il terreno e donandolo nel 1488 alla famiglia Como, in virtù dei leali servigi che gli offriva. In seguito, vennero aperte altre quattro finestre, realizzato il gran salone interno e aggiunti gli stemmi della famiglia Come e, in segno di ringraziamento, anche di quella d’Aragona. All’epoca, dopo i lavori appena descritti, l’androne del palazzo presentava due porte dalle quali si accedeva agli ambienti del piano terra, tra cui c’erano gli studi di Angelo Como, che affacciavano sul grande giardino arricchita da una meravigliosa fontana. Al piano nobile, invece, oltre al gran salone, vi erano gli appartamenti nei quali abitavano i vari membri della famiglia.
Purtroppo, con il susseguirsi degli anni, in seguito al declino della dinastia aragonese, anche la famiglia Como cadde in rovina e, non trovando gli eredi un accordo su chi dovesse abitare il palazzo, decisero di affittarlo, prima ai canonici della Cattedrale, poi, nel 1567, a Tommaso Salernitano, che lo utilizzò fino al 1587, anno in cui la proprietà venne venduta a Marcello de Bottis. Quest’ultimo, però, per ragioni sconosciute, abbandonò il palazzo dopo pochi mesi e lo lasciò alla Congregazione di Santa Caterina da Siena. Questo evento alimentò la leggenda popolare riguardo l’esistenza del cosiddetto “munaciello”, un folletto maligno che avrebbe abitato e infestato le antiche case della città. Così, i frati che entrarono in possesso dell’edificio lo trasformarono affinchè potesse essere utilizzato come monastero, lasciandone intatta la facciata.
In seguito, tra il 1815 e il 1820, in seguito alla soppressione degli ordini religiosi, alcuni ambienti del palazzo vennero usati dall’austriaco Antonio Mennel come fabbrica di Birra, mentre altri vennero occupati dall’Archivio del regno. Successivamente,nel 1824, l’Ordine della Venerabile Giovanna de Lestomac occupò l’edificio, dopo una parentesi che lo vide sede per gli alloggi delle truppe austriache. Anche in questo caso, però, la loro permanenza non durò molto a causa del crollo della volta del refettorio.
Successivamente, nel 1826, il palazzo fu dimora dei padri Minori Osservanti che vi rimasero fino al 1863, quando ci fu una nuova soppressione degli ordini religiosi. Dopo questo avvenimento gli interni divennero sede di uffici del Municipio e della Pretura.
A metà XIX secolo, Palazzo Como dovette affrontare i lavori di allargamento di via Duomo che ne misero seriamente a repentaglio la sua permanenza. Alla fine, grazie alle pressioni degli ambienti intellettuali del tempo, si decise di farlo arretrare di una ventina di metri. I lavori vennero affiati agli ingegneri Eduardo Cerrillo, Carlo Martinez e Alberto Pedone che, tra il 1779 e il 1782, riuscirono a completare la ricostruzione. In quell’occasione il palazzo venne destinato a museo grazie all’intervento di Gaetano Filangieri junior, principe di Statriano, che propose all’allora sindaco di Napoli (Girolamo Giusso), di conservarvi le opere di sua proprietà. Purtroppo, molte delle collezioni esposte andarono perdute, insieme a molti documenti dell’archivio storico, a causa di un incendio scoppiato durante la Seconda Guerra Mondiale (1943) a San Paolo Belsito, vicino a Nola, luogo in cui erano state temporaneamente trasferite.
Pur non avendo notizie sulla data di costruzione, il palazzo rimane uno dei pochi esempi di architettura rinascimentale a Napoli e, già nel 1404 era proprietà di Giovanni Como, figlio di Girolamo, che, nel 1450, con l’aiuto del fratello Fabio, acquistò una casa vicina e un giardino con fontane per ampliare la propria dimora. I lavori cominciarono nel 1464 e, dopo aver acquistato porte, finestre e piperno, la famiglia Como si affidò all’opera di Rubino di Cioffo da Cava e di Evaristo da San Severino. La realizzazione del progetto rallentò a causa delle difficoltà di Angelo Como e della famiglia nell’acquistare un altro giardino, di proprietà di un certo Francesco Scannasorice che rifiutava qualsiasi offerta. Così, Alfonso II d’Aragona, del quale Leonardo Como, figlio di Angelo, era segretario, decise di intervenire acquistando il terreno e donandolo nel 1488 alla famiglia Como, in virtù dei leali servigi che gli offriva. In seguito, vennero aperte altre quattro finestre, realizzato il gran salone interno e aggiunti gli stemmi della famiglia Come e, in segno di ringraziamento, anche di quella d’Aragona. All’epoca, dopo i lavori appena descritti, l’androne del palazzo presentava due porte dalle quali si accedeva agli ambienti del piano terra, tra cui c’erano gli studi di Angelo Como, che affacciavano sul grande giardino arricchita da una meravigliosa fontana. Al piano nobile, invece, oltre al gran salone, vi erano gli appartamenti nei quali abitavano i vari membri della famiglia.
Purtroppo, con il susseguirsi degli anni, in seguito al declino della dinastia aragonese, anche la famiglia Como cadde in rovina e, non trovando gli eredi un accordo su chi dovesse abitare il palazzo, decisero di affittarlo, prima ai canonici della Cattedrale, poi, nel 1567, a Tommaso Salernitano, che lo utilizzò fino al 1587, anno in cui la proprietà venne venduta a Marcello de Bottis. Quest’ultimo, però, per ragioni sconosciute, abbandonò il palazzo dopo pochi mesi e lo lasciò alla Congregazione di Santa Caterina da Siena. Questo evento alimentò la leggenda popolare riguardo l’esistenza del cosiddetto “munaciello”, un folletto maligno che avrebbe abitato e infestato le antiche case della città. Così, i frati che entrarono in possesso dell’edificio lo trasformarono affinchè potesse essere utilizzato come monastero, lasciandone intatta la facciata.
In seguito, tra il 1815 e il 1820, in seguito alla soppressione degli ordini religiosi, alcuni ambienti del palazzo vennero usati dall’austriaco Antonio Mennel come fabbrica di Birra, mentre altri vennero occupati dall’Archivio del regno. Successivamente,nel 1824, l’Ordine della Venerabile Giovanna de Lestomac occupò l’edificio, dopo una parentesi che lo vide sede per gli alloggi delle truppe austriache. Anche in questo caso, però, la loro permanenza non durò molto a causa del crollo della volta del refettorio.
Successivamente, nel 1826, il palazzo fu dimora dei padri Minori Osservanti che vi rimasero fino al 1863, quando ci fu una nuova soppressione degli ordini religiosi. Dopo questo avvenimento gli interni divennero sede di uffici del Municipio e della Pretura.
A metà XIX secolo, Palazzo Como dovette affrontare i lavori di allargamento di via Duomo che ne misero seriamente a repentaglio la sua permanenza. Alla fine, grazie alle pressioni degli ambienti intellettuali del tempo, si decise di farlo arretrare di una ventina di metri. I lavori vennero affiati agli ingegneri Eduardo Cerrillo, Carlo Martinez e Alberto Pedone che, tra il 1779 e il 1782, riuscirono a completare la ricostruzione. In quell’occasione il palazzo venne destinato a museo grazie all’intervento di Gaetano Filangieri junior, principe di Statriano, che propose all’allora sindaco di Napoli (Girolamo Giusso), di conservarvi le opere di sua proprietà. Purtroppo, molte delle collezioni esposte andarono perdute, insieme a molti documenti dell’archivio storico, a causa di un incendio scoppiato durante la Seconda Guerra Mondiale (1943) a San Paolo Belsito, vicino a Nola, luogo in cui erano state temporaneamente trasferite.
Tratto da: Aurelio De Rose, I palazzi di Napoli, Roma, Newton & Compton, 2001
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