Palazzo Orsini di Gravina
Storia e architettura

La sua storia comincia nel 1513, quando Don Ferrante orsini, duca di Gravina, acquistò un terreno dalle monache del monastero di Santa Chiara. A questo, nel 1547, si aggiunse un’altra proprietà, comprata sempre dalle stese religiose, che permise al nobile di cominciare i lavori per la costruzione del proprio palazzo.
Nonostante la data di costruzione sia certa, gli storici ignorano chi sia l’autore e il realizzatore del progetto; alcune fonti citano un certo Gabriele d’Angelo, anche se questo nome non trova nessun riscontro, mentre è certo che tra il 1548 e il 1549, Giovan Francesco di Palma venne incaricato di realizzare alcune targhe con i simboli della famiglia e le imposte delle finestre.
Per prima cosa venne ultimata la facciata principale, che, al piano terra presentava un bugnato nel quale si aprivano quattro finestra ad entrambi i lati dell’ingresso. Il piano nobile, invece , era caratterizzato da dieci pilastri con capitelli dorici che si alternavano alle finestre in marmo bianco sormontate da nicchie in cui erano posti dei busti.
Il cortile interno, invece, aperto sul retro e confinante con il giardino di Santa Chiara, presentava dei portici con arcate sorrette da pilastri di ordine tuscanico, i quali erano decorati da tondi in marmo nei quali erano raffigurate i simboli della famiglia Orsini: l’orso, la rosa, lo scudo bardato e il putto inginocchiato. Il piano superiore replicava lo stesso schema, con la differenza che tra gli archi vennero incastonati i busti di alcuni rappresentanti illustri della nobile famiglia, come Pier Gian Paolo Orsini dei conti di Monapello, Pier Francesco Orsini capitano della Chiesa, Giovan Antonio Orsini principe di Taranto e Raimondo Orsini.
Nel 1549 Ferdinando Orsini morì, lasciando il palazzo in eredità al figlio Antonio. Nello steso anno, vennero ultimati il tetto e alcuni abbellimenti. Nel 1672, dopo vari passaggi, l’edificio arrivò a Domenico Orsini, il quale beneficiò della rinuncia del fratello Pier Francesco, divenuto papa col nome di Benedetto XIII. In seguito, nel secolo successivo, la proprietà passò a Benedetto Orsini che affidò a Mario Gioffredo la realizzazione del portale. Il progetto, eseguito tra il 1762 e il 1782 in collaborazione col marmoraro Luva, consisteva nell’inserire il portone tra due colonne scanalate con capitelli dorici che, a loro volta, sorreggono una cornice. Inoltre, nello stesso periodo vennero effettuati degli affreschi da Giuseppe Bonito, Francesco de Mura e Fedele Fischetti.
Nel 1799, a causa dei debiti, la famiglia orsini perse la proprietà dell’immobile che venne utilizzato come abitazione per il generale francese Thiebault, mentre nel 1837 fu definitivamente espropriato e consegnato ai creditori. Così, il palazzo venne acquistato per 38000 ducati dal conte dei Camaldoli Giulio Cesare Ricciardi, che ne affidò il restauro all’architetto Nicola d’Apuzzo. I lavori vennero criticati aspramente, anche da alcune forze politiche, per la loro invasività, ma il nuovo proprietario ricevette il consenso del re e proseguì per la sua strada: venne costruito un piano ulteriore, mentre al piano nobile vennero eliminati gli ovali che sormontavano le finestre e sostituiti da balconi. Al piano terra, invece, vennero realizzate nuove aperture per dare posto a delle botteghe. Infine, vennero eliminate tutte le insegne e le scritte che si riferivano alla famiglia Orsini. Successivamente, però, nel 1848, il palazzo venne devastato da un incendio appiccato il 15 maggio durante i moti rivoluzionari.
Il restauro che fu avviato in seguito, affidato nel 1849 a Gaetano Genovese, mirò a sistemare gli interni per ricavarne uffici. Così. Venne costruito il quarto lato, chiudendo il cortile, e vennero ricostruite le scale su entrambi i lati della corte. Venne rifatto il soffitto e, all’esterno, le facciate laterali vennero bugnate, mentre i pilastri e alcune decorazioni vennero restaurate. Tutto ciò eliminò qualsiasi traccia del progetto rinascimentale originario, almeno fino al 1936, anno in cui venne ultimato un ulteriore restauro che riportò gli antichi busti all’interno dei tondi, eliminando i balconi aperti nel XIX secolo.
Tratto da: Aurelio De Rose, I palazzi di Napoli, Roma, Newton & Compton, 2001
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